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venerdì 20 aprile 2012

Attrice? No, al servizio di arte e teatro Enrica Chiurazzi si racconta

Ventisette anni e una grande passione: il teatro. Enrica Chiurazzi, artista segratese, una laurea in Linguaggi dei media alla Cattolica e metà della vita sotto le luci del palcoscenico. L’abbiamo incontrata dopo l’ultima data dello spettacolo “Madre” (regia di Maria Rita Simone) di cui è attrice protagonista.


Come ti sei avvicinata al teatro?
«Ho iniziato alle medie con Alessandro Bontempi all’allora scuola “La locomotiva”. È stata mia mamma a suggerirmi il corso sperando che andassi. Così è stato e non sono più andata via».
È vero che il teatro fa vincere la timidezza?
«Assolutamente no. Non è un posto per far terapia. Per quello ci sono gli psicanalisti. Fin da bambina sono sempre stata timida. Sicuramente ho acquisito sicurezza, ma nel mio mondo: posso esibirmi per un pubblico, rientra nei miei compiti dar vita all’incontro attore-spettatore. Ma non riuscirei ad attirare l’attenzione davanti a una piazza. Non mi sentirei a mio agio».
Perchè sei rimasta?
«Mi sentivo a casa. Sentivo che tutto era giusto: momento, persone, posto. Potevo esprimermi e sentirmi viva. In fondo, cerchiamo tutti un luogo caldo che ci faccia sentire comodi. Io l’ho trovato».
I tuoi genitori ti hanno sempre appoggiata?
«All’inizio pensavano che fosse solo un hobby. Ma pian piano ho sviluppato la passione che è diventata un gioco serio. E il loro punto di vista è cambiato. Se da un lato mi supportavano e venivano a vedere i miei spettacoli, dall’altro si preoccupavano del mio futuro. Desideravano per me un lavoro fisso – che ora come ora a quanto pare è difficile da garantire in ogni caso – con busta paga a fine mese. Il teatro è sì un compagno di vita, ma a livello economico non dà molte soddisfazioni. È sudore e fatica. È crederci e continuare ad andare avanti sapendo che tutto si muove contro. Puoi lavorare in una compagnia, oppure fare casting e rischiare di lavorare per pochi mesi all’anno».
Qual è stato il tuo percorso?
«Due anni con Bontempi, tre alla scuola “Faro teatrale” e in contemporanea un anno alla “Scuola Internazionale di Kuniaki Ida”. Quest’ultimo corso è orientato sulla fisicità dell’attore, mentre il “Faro” mi ha permesso di conoscere l’importanza dell’arte nel suo complesso. Mi ha fatto crescere non come attrice ma come essere umano: ho imparato a prendermi cura di uno spazio lavorativo, ho lavorato sulle dinamiche del gruppo, sul concetto di responsabilità nei confronti di me stessa, dei miei partner di scena e del lavoro che porto avanti. Grazie a questa scuola ho visto la poesia del teatro».
Cosa significa per te stare sul palcoscenico?
«Avere proprio quelle responsabilità. Un attore deve riuscire a regalare un’emozione, deve lasciare un seme negli spettatori».
Cosa fai attualmente?
«Faccio parte dell’associazione culturale “Atelier Teatro” che si occupa di formazione e produzione culturale, insegno teatro a bambini e adulti e faccio spettacoli per bambini».
Chi ti ha ispirato da bambina?
«Ispirata è un parolone. Diciamo che ero innamorata di Bruce Willis, un super eroe. Avevo tappezzato di poster la mia stanza. Ma non mi interessavano le sue doti attoriali… ora stimo personaggi come Marco Paolini e Marco Baliani perchè usano il mezzo di comunicazione del teatro per mostrare la realtà. E certamente Peter Brook, uno degli ultimi maestri contemporanei che abbiamo».
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi da attrice?
«Da bambina desideravo fare l’”attrice”. In realtà ora non mi piace tanto questo appellativo, lo trovo riduttivo. Lavorando in teatro, soprattutto in un’associazione, ci si rende conto che è un compito più ampio. È un lavoro di scoperta e di ricerca, un servizio al teatro e all’arte».
Quindi chi sei? «Enrica, lavoro in teatro».
E…
«Il mio obiettivo: raccontare storie, andando oltre la memorizzazione della parte. Fare da portavoce di un’epoca per non far dimenticare ad esempio da dove proviene una cultura».
Ecco, parliamo di “Madre”.
«Prodotto da “Crucifixus, Festival di Primavera” nel 2011, è un monologo che racconta la Passione di Cristo vista dal punto di vista di Maria. Ma non tratta solo la visione religiosa: si spinge a un livello umano, terreno, perchè racconta di una madre a cui hanno ucciso un figlio. Quest’anno è stato proposto in diverse chiese della zona di Brescia e Val Camonica. Ora vorrei portarlo a Segrate, per regalare qualcosa alla città che mi ha cresciuta. Un ritorno alle origini, allo stesso modo in cui “Madre” riporta alla tradizione religiosa da cui proveniamo».
Lo spettacolo che hai nel cuore?
«“Duty Free della sopravvivenza”  di Atelier Teatro (regia di Mamadou Dioume) realizzato in occasione della prima Marcia Mondiale per la pace e la non-violenza del 2009. È un meraviglioso lavoro di creazione in cui noi attori abbiamo improvvisato e il drammaturgo dell’associazione Andrea Viganò ha creato il testo».
Tra un mese la scuola di TeAtrio porta in scena “Desaparecidos y Cabrones” di Bontempi. Ti dice qualcosa?
«Mai dai, davvero? È uno dei primi spettacoli che ho fatto con Bontempi! Andrò a rivederlo. Ai tempi avevo solo 13 anni, ma se lo dovessi rifare ora lo affronterei con maggiore consapevolezza. Ale e tutta la compagnia di TeAtrio sono stati la mia prima famiglia. Devo tantissimo a loro».
Hai fatto parte del cast di due cortometraggi. Mai pensato di buttarti nel cinema?
«“Poesia che mi guardi” di Marina Spada (2010) e “Exi(s)t” di Alessandro Soresini (2011). Non conosco ancora quel mondo, le dinamiche sono completamente diverse dal teatro. Ora come ora amo stare dove sto».
Guardi mai la tv?
«Tendenzialmente no. Nonostante sia stata creata come mezzo di trasmissione della cultura, credo che al giorno d’oggi, non venga utilizzata al meglio delle potenzialità: punta un po’ troppo su passatempi sterili. Un vero peccato».
Consiglieresti a un aspirante attore di buttarsi in questo mondo?
«Beh, sono di parte. Certamente sì. Il segreto è non demordere anche se i primi risultati non sono entusiasmanti. Bisogna crederci, avere sete di conoscenza. Il teatro richiede sacrifici. È un gioco, serio, ma divertente!».

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